
"Sentinella quanto resta della notte?" Lettera ai giovani cooperatori (e non solo) - 08/04/2020
Questa stagione inedita è certamente una fase in cui provare a riordinare le idee, quindi anche un periodo di riflessioni. Riceviamo da Mauro Ponzi questo contributo che propone una lettura e una traiettoria per la cooperazione sociale e non solo.
Saremo lieti se altri vorranno inviarci i loro pensieri che pubblicheremo.
«Sentinella, quanto resta della notte?»
Isaia 21,11
Carissime cooperatrici e cooperatori giovani,
scrivo soprattutto a voi (ma includo tutti i cooperatori a prescindere dalla età anagrafica) perché ne ho bisogno innanzitutto io (e perdonatemi se vi disturbo con alcune riflessioni da anziano), del resto anche il profeta Gioele dice al capitolo 3 versetto 1 "i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni": ecco, il primo scopo di questa lettera è ben chiaro nello scritto profetico: un vecchio (io) che sogna e i giovani cooperatori (voi) che hanno visioni...
Mi ha dato un importante spunto per scrivere e condividere con voi alcune riflessioni Chiara Giaccardi, docente di Sociologia e Antropologia dei media alla Cattolica di Milano, che in un suo articolo sul blog "Generatività" ci ricorda che l'antropologo Ernesto De Martino, in una serie di appunti usciti postumi con il titolo La fine del mondo, usa un'espressione che può illuminare questi giorni di incertezza, di sospensione, di angoscia per il presente e il futuro: catastrofe vitale che qui vi riporto:
Catastrofe è letteralmente un rovesciamento, un capovolgimento, uno sconvolgimento repentino e in peggio delle condizioni esistenziali, di solito legato a un evento imponderabile. E certamente il coronavirus, per il mondo e per l'Italia, è una catastrofe. Improvvisamente ci siamo trovati di fronte, impreparati, al lato oscuro della interconnessione globale, che costituisce una perfetta infrastruttura anche per la diffusione dei virus patogeni, oltre che dei video 'virali' e delle news, fake e non.
Mai come in questo momento l'individualismo si rivela un'astrazione: siamo tutti interconnessi, le nostre vite sono legate le une alle altre, i nostri comportamenti condizionano la vita di altri e viceversa. E la catastrofe non riguarda solo il presente: abitudini cambiate di colpo, socialità quasi azzerata, scuole e università ferme, negozi e locali pubblici deserti, e molto altro. È il futuro che spaventa di più: gli effetti su un'economia già zoppicante, e le ripercussioni sociali in un mondo già segnato da tante e crescenti disuguaglianze.
Da qui, una prima lezione: non siamo individui, ciascuno nella sua bolla di immunità, ma persone in relazione, ciascuna con il suo carico di responsabilità: ciascuno di noi può fare la differenza, per sé e per gli altri (soprattutto i più deboli) per frenare il contagio. È un altro con-tatto, fatto di consapevolezza e sollecitudine per gli altri prima ancora che preoccupazione per sé, a cui siamo chiamati ora: lasciarci toccare dal pensiero dell'altro. La capacità di pensare in termini di 'noi' anziché di 'io' è uno sforzo indispensabile, faticoso ma benefico.
C'è però anche l'altro aspetto che l'espressione di De Martino mette in luce. L'ossimoro 'catastrofe vitale' rivela infatti la struttura paradossale dell'esistenza umana, dalla quale trarre le risorse per affrontare anche questo momento difficile. La tensione tra la vita e la morte è insopprimibile, e rimuovere la morte dal nostro orizzonte rischia di rendere le nostre vite svuotate di senso. Ora che la catastrofe ci mette irrimediabilmente di fronte alla vulnerabilità della nostra esistenza siamo anche chiamati a rendere la tensione tra la vita e la morte un nodo di fecondità possibile. Ora che abitudini e routines che davamo per scontate (e che perciò pensavamo immodificabili) sono state spazzate via, e che il motto individualistico 'mors tua vita mea' rivela tutta la sua fallacia ('vita tua vita mea' è piuttosto ciò che ci tiene insieme oggi) siamo nelle condizioni di povertà e leggerezza per ripensare il senso e le forme del nostro essere insieme, le forme e i ritmi delle nostre attività lavorative.
"Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla".
Partendo da questa considerazione, che ovviamente rivolgo innanzitutto a me in quanto avverto l'esigenza, (spero non in solitudine) di tentare, cercare qualcosa raccolgo l'invito nel non rassegnarci alle negatività della attuale situazione e neppure a limitarci alla nostalgia, ricordo e rimpianto per una normalità che di certo non tornerà presto, anzi non tornerà affatto così come ci stato dato di conoscere (e magari questo non è del tutto male), anzi forse è l'unica certezza che abbiamo.
Siamo ora immersi nella gestione emergenziale di queste settimane e forse mesi ma il pensiero a medio lungo periodo che nasce da questa situazione contingente porterà a riflessioni e decisioni diverse, fisiologicamente diverse, strutturalmente diverse e anche se non possiamo pretendere ora nella bufera di vedere nitidamente la meta, sappiamo che una meta sicura ci sarà, senza tralasciare nemmeno per un istante di tirare via l'acqua dalla barca perchè altrimenti affondiamo. Tutti insieme.
E mentre cerchiamo con tutti i mezzi dei quali ciascuno dispone di togliere acqua approfittiamo anche di questo tempo "sospeso e lungo" per ripensare il senso delle nostre vite, dei nostri legami, del nostro lavoro cooperativo, della gratitudine per ciò che ci è stato consegnato, ma soprattutto delle forme nuove che possiamo ricostruire a partire da questo 'azzeramento' forzato. Che siano forme (di socialità, di lavoro, di consumo, di contribuzione, di abitare e vivere le comunità, di leggerne i bisogni) capaci di ospitare più vita e più qualità della stessa.
Provo allora a fare alcune riflessioni da cooperatore sociale.
La cooperazione sociale non gode di buona reputazione in Italia da diversi anni. Tanti sono stati gli attacchi a volte strumentali da parte della politica a volte con ragioni che prendono le mosse da un qualche fondamento. Più in generale il terzo settore viene ricacciato in un ruolo marginale e ininfluente e non sussidiaristicamente attivo e questa situazione si trascina, aggravandosi, da oltre un decennio; forse è venuto anche per noi il momento giusto per uno stop (pur mantenendo il criterio del primum vivere) se non altro riflessivo e che porti a una nuova progettualità.
La storia della Cooperazione ci dimostra che da oltre cento anni siamo sempre stati pronti a leggere i bisogni della società, sia economici sia sociali e di compiere azioni per potervi rispondere. Pensate mentalmente alle origini della cooperazione di consumo, delle cooperative di braccianti e di lavoro, delle casse rurali diventate poi banche di credito cooperativo, delle cooperative di abitazione, delle cooperative per il tempo libero, delle cooperative sociali, delle cooperative di comunità: tutte iniziative nate non da una scoperta scientifica rivoluzionaria ma da uomini e donne che si sono messi assieme per trovare soluzioni. Saremo nella condizione, mi si permetta, ideale, di povertà e leggerezza per ripensare il senso e le forme del nostro essere insieme, le forme e i ritmi delle nostre attività lavorative nella forma cooperativa, forse facilitati nel cambiare (per necessità) molte modalità operative.
Non sarà tempo per stare abbarbicati ai contratti con la Pubblica Amministrazione, o impostare la propria attività esclusivamente sulle gare d'appalto o contratti con la Pubblica Amministrazione magari attraverso il ripristino di antiche modalità di collateralismo proprie dello scorso millennio; alcuni percorreranno principalmente questa via, io non penso che questa possa essere la strada giusta per la rinascita di una cooperazione autentica, vera e orientata alla comunità. Andare dalla gente, incontrane i bisogni, fare impresa non per profitto ma per cercare di ricostruire un tessuto sociale di comunità. A partire dagli ultimi, quelli che la legge chiama dal 1991 soggetti svantaggiati e che oggi sono come categoria largamente aumentati.
Insieme dobbiamo ricreare coesione sociale, insieme dobbiamo aprire nuove strade, insieme dobbiamo tornare ad essere autentici cooperatori. A noi anziani il compito di aiutare l'energia dei giovani ad esprimersi lasciando la strada libera e, se richiesto, aiutare nell'indicare la rotta.
E al lavoro dei singoli dovrà necessariamente aggiungersi, di riflesso, quello delle aggregazioni consortili e delle Centrali Cooperative. Anche per loro l'occasione può essere opportunità da non perdere.
Reinventiamoci, nulla sarà come prima. Confido che sarà meglio. Un ultimo pensiero metaforico:
nel romanzo Le Città invisibili Italo Calvino immagina che Marco Polo descriva un ponte, pietra per pietra, a Kublai Khan. L'imperatore dei Tartari ad un certo punto chiede: "Qual è la pietra che sostiene il ponte?". Il viaggiatore e mercante italiano gli risponde: "Il ponte non è sostenuto da questa o da quella pietra ma dalla linea dell'arco che essi formano". Kublai Khan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: "Perché mi parli delle pietre? E' solo dell'arco che mi importa". Marco Polo gli risponde: "Senza pietre non c'è arco". Immaginiamo la linea dell'arco e diventiamone pietre.
Ora che le abitudini e routines che davamo per scontate (e che perciò pensavamo sicure, solide e immodificabili) sono state spazzate via, e che il motto individualistico 'mors tua vita mea' rivela tutta la sua fallacia 'vita tua vita mea' diventa il vero motto che deve tenerci insieme oggi.
Siamo nelle condizioni di povertà e leggerezza per ripensare il senso e le forme del nostro essere insieme, le forme e i ritmi delle nostre attività lavorative, paradossalmente proprio quando molti di noi, ciascuno a casa propria, pur senza farsi troppe illusioni ne' lavorare troppo di fantasia, non si sente più nell'inespugnabile fortezza che ci isola dal resto del mondo e dalle persone meno prossime.
Il rifugio sicuro, il buen retiro, diventa il necessario diaframma perchè la vita di ciascuno (non solo quella degli abitanti della casa) possa essere più sicura, ci porta seppur forzatamente a pensare allo star bene di tutti e questo per me è un pensiero consolatorio.
Non so, ma lo spero, che la cooperazione sociale saprà cavare da questa esperienza l'energia per dare nuovi frutti, di cui abbiamo sicuramente bisogno; non so se il sistema pubblico trarrà la consapevolezza che "non da soli" vale anche per esso, che davvero c'è bisogno della vitalità di ciascuno: imprese, associazioni, cooperazione, cittadini. La polis da ricomporre in una logica sussidiaristica.
E i cooperatori autentici, a ragione della loro forma mentis, in questa rinascita possono realmente essere non solo le pietre ma anche fra coloro che saranno chiamati a tracciare la linea dell'arco.
A presto, con affetto
Mauro Ponzi